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Jackson Hotel

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A volte dopo ore di vino riesco quasi a vedere
…..la notte che plana, bassa alle spalle del porto
……….lungo le interminabili vie di vetrine
oltre i manichini dai gesti perfetti.
…..Lascio l’acqua fumante sul fornello a gas
……….e a volte riesco a sfuggire al mio corpo,
quasi trovo l’unica parola che evita le sere
…..che non assolvono niente, un inverno vissuto da sola
……….e al freddo. Stanze in cui in qualche modo sposi
i lutti di estranei che tremano
…..sulle pareti come le mani
……….della ballerina della porta accanto, luminosa
di metredina, che tamburella sui muri per ore
…..farfugliando dell’argento che giura
……….riveste l’edificio, i corridoi
dove ogni notte gli ubriachi biascicano
…..il solito rosario finché non ammutoliscono
……….sotto ai numeri ossidati, alle lampadine
che sono le stelle di ogni soffitto.
…..Vi devo dire che ho paura di starmene qui
……….a perdere me stessa nell’ora del lento cancellarsi
al punto di non riconoscere me stessa se non da questo peso
…..freddo, questa mano sul mio grembo, supina.
……….Voglio fermare le mani della ballerina
tra le mie, parlare del perdono
…..e di ciò che ci lasciamo alle spalle—facce
……….e città, i piccoli imprevisti
delle notti. Non dico niente, ma
…..appoggiata al davanzale, la guardo che esce
……….nel momento in cui
i primi taxi cominciano a muoversi appena
…..alle luci di Chinatown, alimentati
……….da un desiderio triste e umano. La guardo svanire
in fondo alla via finché è solo uno sbaffo
…..viola nel cerchio del mio fiato. Figura tanto minuta
……….che la potrei tenere nella coppa delle mie mani.

(traduzione di Damiano Abeni)

 

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